mercoledì 28 novembre 2012

Quel primo fruscio (Monti-care 2)

Ci eravamo abituati, noi che non abbiamo vissuto la guerra, a una concezione di Paese vicina a quella di casa:


il tuo Paese è quello dove una serie di diritti ti sono garantiti, a partire da quelli più emozionali ed intuitivi dell'appartenenza, della lingua comune, del vissuto comune, del riconoscimento di cittadinanza, della tribù allargata insomma, della condivisione di un pezzo di mondo con caratteristiche omogenee e un po' diverse rispetto ai pezzi confinanti. 

Dovunque poi ti fossi trovato a vivere, quel mondo restava casa tua, il posto da cui vieni e per cui puoi permetterti di coltivare amore/odio, restava il posto in cui non devi scusarti di esistere o giustificare a qualcuno perché ci vivi.

Pazienza se molto di questo immaginario che ci permette di scambiare una battuta col taxista e con il vicino dipende da una cultura visuale e sloganistica che ancora ci viene dall'ultimo trentennio di televisione privata e pubblica e dalla cultura dell'evasione (di vario tipo).

Pazienza se abbiamo esagerato permettendo a molti di noi di portare avanti quell'interpretazione retrograda e prepotente dell'individualismo secondo la quale "ognuno a casa sua fa ciò che vuole", applicata dai poveri di spirito alla vita di condominio così come alla gestione della cosa pubblica. Proprio questa tendenza infantile ad allargarsi e a rosicchiare diritti supplementari tutto intorno ha fatto e continua a fare danni irreparabili che ritornano a boomerang anche su chi li ha scatenati.

Pazienza se negli ultimi tempi, parallelamente all'allegra evasione, qualche dubbio ci era venuto sul fatto che questo Paese fosse ancora terminologicamente avvicinabile al campo semantico casa: sempre più porte chiuse, stanze dove non si può entrare senza parola d'ordine, qualche gentile ma fermo invito ad accomodarci nella dépendance, va bene ci accomodiamo, ci dicono che sarà temporaneamente, ma a volte dobbiamo persino fuggire da pavimentazioni instabili e ballerine. Pensiamo di essere pronti a tutto, non è così.

Pazienza se la sovranità non è detto che l'abbiamo mai veramente avuta, abbiamo sempre ritenuto per assunto folklorico che la classe politica "rubasse" ma sapesse anche autoregolarsi in quanto "élite" non meglio specificata, e purché non rubassero troppo, andava bene così.

Ora siamo seduti su uno sgabello nella dépendance e non siamo soli. Il tetto fa acqua e a quanto pare dobbiamo prepararci a svendere armadio, auto e cornici argentate. La porta non si chiude bene. E cigola in continuazione. 

Nessuno crede in una concezione paternalistica dello Stato, ma la dittatura soft che si è preannunciata ieri dovrebbe spingere chiunque non sia legato a massonerie cattoliche o laiche a sentirsi espropriato dell'appartenza a una casa sia comune che propria, in cui era lecito credere (a quello sì, non alle veline, non al calcio). 

Dopodiché anche se, contro ogni evidenza, continuerà a seguire storie e talk-show alla televisione e a mettersi in fila alle primarie di partiti infracicati di retorica, almeno dovrebbe cominciare a ricordare questo slittamento di campo semantico da Paese-casa a Paese-casa ostile come il primo segnale d'allarme.

Eccoci dunque in piena notte, tuoni e fulmini, scricchiolii nel silenzio e freddo, e questa benedetta porta che cigola: ci manca solo che questa non sia più casa nostra e che quello sia stato il primo significativo fruscio prima che essi arrivino.

Nessun commento:

Posta un commento